Stasera, quando si troverà a stringere la mano di Gian Piero Gasperini prima del fischio di inizio di Atalanta-Arsenal, Mikel Arteta guarderà dritto negli occhi il riflesso di ciò che sembra destinato a diventare. Vale a dire l’immagine, anzi la proiezione ideale, dell’allenatore che è allo stesso tempo costruttore e architetto, pietra angolare di un progetto a lungo termine che porta una squadra altrimenti destinata a un’esistenza manzoniana di “vaso di terracotta tra tanti vasi di ferro” a trasformarsi in vaso di ferro a sua volta. Cambiando un destino apparentemente già scritto attraverso la forza delle idee, del metodo, della pazienza, della capacità di vendere un’utopia – quella di poter vincere e di farlo nel modo giusto, come diceva il grande Larry Brown – a un ambiente che non è fatto solo di dirigenti e calciatori ma anche di gente comune, di tifosi che pagano un biglietto o un abbonamento alla pay tv, e che sono abituati a ragionare quasi esclusivamente sulla dicotomia tra vittoria e sconfitta rapportata sull’orizzonte temporale della singola stagione, dimenticando ciò che è stato e non prestando attenzione a ciò che sarà. O a ciò che potrebbe essere.
Nel caso di Arteta, che ha lavorato e continua a lavorare su contesti e orizzonti (tecnici, economici e culturali) diversi da quelli di Gasperini, aver fatto dell’Arsenal uno dei vasi di ferro della Premier League tiranneggiata dal City di Pep Guardiola è stato solo il primo passo di un cammino cominciato il 20 dicembre 2019. Cioè quando il club cui aveva dedicato gli ultimi anni della sua carriera da calciatore si era affidato a lui per risalire dal baratro di quell’aurea mediocritas che a suo tempo aveva fatto le fortune di Nick Hornby e David Evans e che, a oltre trent’anni di distanza dalle storie narrate in Fever Pitch, non lasciava altra prospettiva ai tifosi se non quella di cullarsi nel ricordo di Arsène Wenger, Thierry Henry e degli altri Invincibili del 2004.
Vent’anni dopo quegli eventi, che per molti segnarono il vero inizio della fine dell’epopea wengeriana, Arteta ha messo la firma su un rinnovo di contratto di cui non si conoscono cifre e durata, quasi a voler indicare come la fine del percorso iniziato cinque anni fa – che coincide, ovviamente, con la vittoria del campionato che manca appunto dalla stagione 2003/04 – sia prossima, anche se non è ancora chiaro né come né tantomeno quando avverrà. Per qualcuno si potrebbe discutere anche sul dove nel momento in cui l’Arsenal cominciasse ad andargli troppo stretto per le sue ambizioni: «Sono fortunato a poter lavorare ogni giorno con persone che condividono l’ambizione che abbiamo qui. Mi sento motivato, sfidato e supportato e tutto ciò che voglio è fare ancora di più di quanto abbiamo già fatto tutti insieme fino ad oggi. Con i giocatori e al resto del club stiamo guardando ai prossimi anni insieme i nostri tifosi che sono quelli che hanno cambiato emotivamente la nostra squadra. Oggi si vede che siamo diversi ed è grazie a loro: non vediamo l’ora di continuare questo viaggio insieme» ha fatto scrivere il tecnico in calce al comunicato stampa pubblicato tre giorni prima la vittoria nel North London Derby contro il Tottenham. Una partita fisicamente durissima, al termine della quale Arteta ha voluto elogiare i suoi giocatori per aver vinto facendo tutto ciò che era necessario fare per raggiungere l’obiettivo, anche a costo di andare contro un certo ideale filosofico ed estetico che non sembrava essere negoziabile: «Per vincere qualche volta devi fare delle cose che alla gente non piacciono, cose che la gente definirebbe “brutte” o “sporche”. Ecco secondo me divertirsi e vincere facendo quelle cose “brutte” e “sporche” credo sia un grande complimento per la mia squadra».
Questo cambio di paradigma, che ha avuto un riscontro pratico – cioè di campo – prima ancora che comunicativo e relazionale, è la diretta conseguenza della necessità che Arteta ha di dover rispondere alle domande sul suo essere o non essere un grande allenatore, quantomeno nell’accezione moderna di questa locuzione. Quindi sul suo poter essere un allenatore che vince dopo essere stato un allenatore che ha saputo ricostruire sulle macerie di una banter era che non era stata ancora percepita come tale, restituendo all’Arsenal una sua precisa identità tattica e facendo della sua proposta di gioco un brand che vale la pena esporre come simbolo di rivendicazione, appartenenza e identità. In questo senso, chiedersi se Arteta sia un grande allenatore significa chiedersi quanto Arteta sia in grado di uscire dalla comfort zone del suo idealismo e scendere a tutti quei compromessi che la vittoria di un grande titolo richiede prima o poi a chiunque, tanto più nell’epoca in cui il talento e le idee vengono fagocitati a dei ritmi spesso insostenibili per gli stessi protagonisti. Basti pensare che persino Guardiola, di cui Arteta è stato prima allievo e poi antagonista dopo l’implosione del Liverpool di Jurgen Klopp, ha dovuto derogare ad alcuni dei principi immutabili del juego de posición e all’idea dello spazio come centravanti nel momento in cui lo stesso aveva assunto le sembianze di Erling Haaland. E allora bisognava trovargli un posto e uno scopo.
In questo senso quella dichiarazione arrivata dopo l’1-0 contro il Tottenham, ma anche l’aneddoto dei borseggiatori ingaggiati per derubare i giocatori durante una cena di squadra per insegnargli a tenere sempre alta la guardia, costituiscono la rappresentazione di tutto ciò che Arteta è disposto a fare per affermarsi definitivamente e cambiare la percezione che si ha di lui. Non è tanto un discorso di campo, di strategie, di tattica, delle linee guida da seguire nella costruzione di un parco giocatori che sia a immagine e somiglianza della volontà di potenza del tecnico: la questione riguarda soprattutto la capacità di Arteta di cambiare, di andare oltre sé stesso, di sedersi allo stesso tavolo degli Zidane, dei Guardiola e dei Klopp restando comunque fedele alla sua natura primordiale di innovatore alla ricerca di nuove strade che diano forma e sostanza alla sua idea di controllo e di dominio: «Se guardiamo alle statistiche e a tutto ciò che la squadra ha fatto negli ultimi 11 mesi, avremmo dovuto vincere la Premier League. Ma la realtà dice che non l’abbiamo fatto e questo significa che c’è qualcosa che non siamo riusciti a gestire bene come il Manchester City. Nelle ultime due stagioni siamo stati davvero costanti, ma ci sono dei margini davvero ridotti che hanno fatto, e fanno ancora, la differenza tra la vittoria e la sconfitta; penso che oggi abbiamo capito dove sono questi margini e cosa dobbiamo fare per crearli» disse a inizio luglio in una lunga intervista a Espn.

57 sconfitte (Julian Finney/Getty Images)
L’Arsenal di oggi, l’Arsenal che secondo il suo allenatore è in grado di «dimostrare resilienza» anche nelle fasi della partita in cui deve costringersi a difendersi posizionalmente all’interno della propria metà campo, è una squadra matura, figlia dei cortocircuiti emotivi che negli ultimi due anni hanno impedito di giocarsi realmente il titolo con il City. Tanto che, a un certo punto, si trattava soltanto di aspettare il momento in cui avrebbe preso forma il turning point in negativo che avrebbe lasciato campo libero agli avversari; una squadra, quindi, che non ha più paura di essere anche altro e che per esserlo non deve più sforzarsi fino al limite dell’autosabotaggio, con tutte le conseguenze del caso: «Oggi siamo una squadra completa, totale, che lavora duro e in cui tutti sanno che chiunque entrerà sarà pronto a fare la sua parte a a dare una mano» ha detto Jorginho quando gli hanno chiesto di commentare il 4-4-2 spurio (con Havertz e Trossard di punta e Martinelli e Saka occupati a coprire il campo in ampiezza) visto nel derby in cui, come ha scritto Alex Keble in un articolo pubblicato sul sito ufficiale della Premier League, «l’efficienza dell’Arsenal ha avuto la meglio sull’idealismo degli Spurs».
L’insistenza su questa idea di pragmatismo e spietatezza contrapposti all’astrazione e alla visione etica (del calcio, ma non solo) di Postecoglu non è casuale. L’allenatore del Tottenham non è altro che una figura retorica di facile impatto, il fantasma del Natale passato con cui Arteta è chiamato a confrontarsi oggi che vuole essere qualcosa d’altro e qualcosa di più, l’allenatore idealista e intransigente che è stato, anzi che ha dovuto essere, all’inizio della sua avventura sulla panchina dei Gunners per ricostruire un’identità, per dare uno scopo, per rimettere ordine nel caos. Un allenatore che è stato comunque necessario superare nel momento in cui la dimensione individuale e collettiva ha richiesto una nuova consapevolezza di sé e del proprio posto nel mondo. Tutto il tempo che Arteta ha avuto a disposizione anche quando sembrava illogico concedergliene altro – come all’inizio della stagione 2021/22 quando l’Arsenal sembrava avviato verso l’autodistruzione definitiva – è servito per preparare una transizione verso la grandezza che è avvenuta quasi senza che ce ne accorgessimo. E che si è sostanziata in un dato significativo riportato su The Athletic da James McNicholas: al termine dell’ultima sessione di calciomercato, soltanto Bukayo Saka e Gabriel Martinelli facevano parte della rosa dell’Arsenal il giorno in cui Arteta mise piede per la prima volta nel centro di allenamento di Shenley, per altro da tecnico più giovane della Premier League.
Tutto ciò che è accaduto da allora è stato parte integrante di un viaggio di formazione catartico e intimista, volto alla ricerca dei propri limiti e del modo di superarli, che ha fatto di Arteta l’allenatore che è oggi. Un allenatore, quindi, che è già grande anche se non ha ancora vinto e che però ha bisogno di vincere per capire a che punto è della sua vita e della sua carriera: «Tutto ciò che puoi fare è ragionare una partita alla volta e guadagnarti il diritto di vincerla, provando a migliorare i giocatori e a fargli credere che possono farcela». Che sia in Premier League contro il Manchester City o all’esordio in Champions League contro l’Atalanta è questione di sfumature e di prospettive di un mondo in cui «la competizione è sempre più dura rispetto alla stagione precedente». No, Nick Hornby non avrebbe saputo dirlo meglio.