Non ha senso addolcire le parole o usare delle metafore, è giusto dire le cose come stanno: siamo ormai all’inizio del 2025 e la Juventus di Thiago Motta è una squadra ancora irrisolta, ancora incompiuta. Che vince poche partite e che – questa è la notizia peggiore, di gran lunga – sta vivendo un’evidente involuzione a livello di gioco, di efficienza tattica, soprattutto se compariamo le prestazioni degli ultimi due mesi con alcune cose che si erano intraviste nelle prime gare della stagione. Ecco, proprio il confronto tra la prima Juventus di Motta e quella di oggi sposta inevitabilmente i riflettori su un altro aspetto della questione, sul fatto che la squadra bianconera era stata progettata a partire da Bremer, Cabal, Nico González, Douglas Luiz: tutti giocatori che hanno inciso pochissimo e che sono diventati marginali, a causa di gravi infortuni o per scelta tecnica. Questo passaggio sulla malasorte, però, vale fino a un certo punto. Perché occorre ricordare/considerare che la Juventus ha perso punti contro Empoli, Cagliari, Parma, Lecce e Venezia, non solo contro Roma, Napoli, Inter e Milan. E allora forse i problemi della squadra bianconera sono più profondi, vanno oltre un semplicistico discorso sul fato avverso.
A Torino, fin dall’inizio della sua nuova avventura, Thiago Motta ha fatto una scelta decisa: la sua Juventus avrebbe dovuto ambire a governare le partite, tutte le partite. A gestire i flussi e il ritmo del gioco rimanendo equilibrata sul campo da gioco. Concettualmente non c’è nulla di diverso rispetto al progetto di qualsiasi altro allenatore, soprattutto se parliamo di grandi squadre. Solo che l’ex tecnico del Bologna – a differenza del suo predecessore in bianconero, Massimiliano Allegri – ha perseguito questa idea di controllo mettendo al primo posto il possesso del pallone, non il presidio degli spazi in chiave difensiva. Da questo processo sta venendo fuori una squadra che spesso arriva a dare la sensazione di essere ripetitiva se non addirittura noiosa, inconcludente. Il problema, però, non è neanche questo: la trasformazione voluta e portata avanti da Motta ha prodotto 32 punti in 18 giornate, nove in meno rispetto alla Juventus 2023/24 (che però non partecipava alla Champions League). In sostanza, quindi, è come se la società bianconera avesse deciso di sacrificare qualsiasi velleità di lotta al vertice – anche solo potenziale – sull’altare di un nuovo corso, di una nuova era. Di una nuova filosofia tattica.
In virtù di tutto questo, inevitabilmente, un po’ di analisti e commentatori hanno iniziato a mugugnare. Dentro il mondo-Juve, ma anche fuori. Le critiche ricevute da Thiago Motta sono andate e stanno andando oltre i risultati, hanno toccato i principi che stanno alla base della sua rivoluzione. È chiaro, lo abbiamo detto anche noi tra le righe: il confronto con l’ultima stagione, fondata su un’idea di calcio completamente diversa non depone a favore dell’allenatore italo-brasiliano – almeno in questo momento. Ma quanto successo in sei mesi scarsi basta per mettere sotto accusa tutto il suo progetto? È già tempo di accartocciare e di buttare nel cestino, o comunque di attaccare frontalmente, il lavoro di Thiago Motta?
Per quanto possa essere difficile da accettare e da metabolizzare, una rivoluzione del pensiero non si esaurisce mai in qualche mese. Neanche alla Juventus. Allora quella per cui bisogna dare tempo a Thiago Motta può sembrare una frase fatta, probabilmente lo è, ma non significa che sia falsa o sbagliata. E non solo perché l’allenatore italo-brasiliano, come detto, ha dovuto fare i conti con delle contingenze sfavorevoli. Il punto è che ci sono dei margini di sviluppo e di ampliamento, nel nuovo progetto della Juve. Ovvero una società/squadra che, di fatto, è stata costretta – a causa delle scelte avventate degli ultimi anni, di inchieste e sentenze e conseguenti ribaltoni interni – a darsi una nuova identità. A ricostruire tutto da zero cercando di restare competitiva, ma anche di tagliare i costi: due esigenze che, come dire, sono piuttosto confliggenti tra loro. E che hanno portato Cristiano Giuntoli e il suo staff a lavorare su due binari paralleli, quello dei talenti da valorizzare e quello dei calciatori già pronti, quello degli Over-25 affermati – e quindi costosi – che avrebbero dovuto garantire un rendimento elevato fin da subito. Ecco, il paradosso sta proprio nell’esito provvisorio di questo percorso double face: mentre Cabal, Kalulu, Thuram e Conceição hanno offerto un rendimento mediamente convincente, a tratti anche sorprendente, mentre Savona e Mbangula si sono imposti come prospetti di qualità, i giocatori più deludenti in questo inizio di stagione sono stati proprio Koopmeiners, Douglas Luiz, Nico González. Quelli che venivano giustamente considerati come degli acquisti da Juventus.

Certo, un’analisi più approfondita potrebbe portare a rilevare che Thiago Motta non è ancora riuscito a trovare il modo per sfruttare altre risorse interne, che forse il talento purissimo di Yildiz dovrebbe brillare con maggiore continuità, che Vlahovic andrebbe rifornito in maniera diversa. Quando però la spina dorsale – Bremer-Douglas Luiz-Koopmeiners – di una squadra non mantiene le promesse immaginate a inizio anno, per svariati motivi, all’allenatore occorre ancora più tempo per trovare nuove soluzioni. Inoltre, ribaltando la prospettiva e spostando altrove i riflettori, si potrebbe dire che il lavoro di Thiago Motta ha dato nuova linfa a Locatelli e McKennie, ha alimentato la crescita esponenziale di Cambiaso e ha consolidato quella di Gatti e Fagioli. Non era scontato e non è poco, soprattutto se consideriamo come la Juventus, negli ultimi anni, sia stata una squadra in cui i giocatori faticavano a migliorare il proprio status. In cui i giovani trovavano anche minutaggio, d’accordo, ma poi era difficile che venissero valorizzati per davvero.
Un vecchio adagio popolare dice che a sbagliare sono solo quelli che fanno, cioè coloro che provano a cambiare le cose. Nel caso della Juve, cioè nel caso di Giuntoli – che dopo un anno nell’ombra si è preso il centro della scena – e di Thiago Motta, è evidente che siano state fatte delle valutazioni sbagliate. Che alcune scommesse, di mercato e di campo, non stiano ancora pagando. Il fatto che la squadra bianconera non sia riuscita a vincere diverse partite dall’andamento simile tra loro, in qualche modo, dimostra che i problemi sono ridondanti, quindi di tipo strutturale. E che l’allenatore, in questo momento, sta insistendo sulla creazione di una base, di un’identità forte, e non sulla ricerca di correttivi a breve termine – dopo il pareggio interno contro la Fiorentina, Motta ha detto che «queste partite si vincono segnando il terzo gol, non evitando di subire il secondo: dovevamo attaccare e chiudere la pratica». Anche questa, soprattutto in un contesto come quello della Juventus, è una scelta di rottura, di trasformazione radicale. Ed è perfettamente coerente con tutto quello che è stato fatto finora per allestire e far partire il nuovo progetto del club bianconero.
Insomma, la Juventus di Thiago Motta ha bisogno soprattutto di fiducia. Anche se ci chiama Juventus, è una squadra che sta seguendo un percorso a lungo termine e che è partita ad handicap – di valore assoluto, di esperienza, di amalgama – rispetto all’Inter, all’Atalanta, forse anche al Napoli: ha un’età media più bassa rispetto alle prime tre squadre della Serie A (25,8 anni, le altre sono sopra i 27,5) e nell’ultimo anno ha ridotto il monte ingaggi del 4% nonostante il bilancio sia appesantito da stipendi molto elevati corrisposti a giocatori ormai fuori dal progetto, per esempio Arthur (cinque milioni netti l’anno), Danilo (quattro milioni) e Milik (3,5 milioni). È chiaro, alcuni dei troppi pareggi di questa stagione restano inaccettabili, ma possono – anzi, probabilmente devono – essere vissuti e derubricati come gli inevitabili passi falsi che caratterizzano ogni nuovo inizio. È un discorso che vale soprattutto per Thiago Motta, alla sua prima stagione da allenatore di un club di primissimo livello, storicamente e quindi inevitabilmente costretto a vincere. Forse non è ancora tempo, perché non è ancora giusto, credere che i suoi errori siano più pesanti dei suoi meriti.