Quando era a Napoli si diceva che per poter vedere davvero il Napoli di Cristiano Giuntoli, quello che poi avrebbe vinto il campionato con un vantaggio abissale sulla seconda in classifica, era stato necessario aspettare quasi sette anni. Ovvero il tempo che gli era servito per convincere Aurelio De Laurentiis a lasciargli carta bianca e ad assumersi in prima persona la responsabilità di avviare una rivoluzione rimandata troppo a lungo, liberandosi dell’ingombrante leadership tecnica ed emotiva dei vari Insigne, Mertens e Koulibaly e (ri)costruendo una squadra da scudetto su Min-Jae Kim e Khvicha Kvaratskhelia, due tra le tante intuizioni che hanno contribuito ad accrescere la sua fama di “architetto del talento” che compra a poco, vende bene (cioè a molto) e vince. Talvolta scegliendo di restare nell’ombra, spesso riconoscendo agli altri quei meriti che sarebbero anche, per non dire soprattutto, suoi: «Al popolo napoletano voglio dire una cosa e cioè che non deve preoccuparsi del futuro. Sono qui da otto anni e sento sempre parlare di chi va via e di chi rimane. Io dico che nelle mani di Aurelio De Laurentiis non ci sarà mai un problema e ci sarà sempre un grande Napoli», disse il giorno della festa scudetto al Diego Armando Maradona, quando la sua mente era già proiettata alla prossima sfida. La più importante della sua carriera.
In questo senso, aver visto e vissuto dall’interno l’ultima Juventus di Massimiliano Allegri (e di Giovanni Manna, che avrebbe poi preso il suo posto al Napoli) sembrerebbe rappresentare un salto temporale degno di Interstellar, un’accelerazione sulla normale tabella di marcia imposta dallo status e dalla credibilità conquistati in questi anni di vittorie e player trading. Ma questo non è il pianeta di Miller, questa è la realtà. E, nella realtà, Cristiano Giuntoli prima di agire ha sempre avuto bisogno di osservare, di capire, di fiutare l’aria, di tastare il terreno. Quanto tempo gli sia poi servito per farlo è un dettaglio quasi marginale che è dipeso dal contesto, dalla storia, dagli interlocutori, dal senso di urgenza che è parte integrante di ogni tentativo di ribaltamento di uno status quo consolidato e apparentemente inscalfibile. Nel caso della Juventus la stagione 2023/24 gli è stata sufficiente per comprendere quanto fosse profonda la crisi tecnica e gestionale che aveva precipitato la squadra simbolo dell’ultimo decennio del calcio italiano nel baratro di una banter era in cui la mancanza di chiarezza su ruoli e responsabilità rendeva difficile intravederne la fine. E così, quando il secondo ciclo di Allegri si è chiuso come un cerchio con la vittoria della Coppa Italia, Giuntoli ha cominciato a lavorare per fare della Juventus la sua Juventus. Per diventare il volto di un cambiamento tanto brutale – nei tempi e nei modi – quanto necessario, per il futuro del club bianconero.
«Da fuori non sono uno di quelli che vede i problemi degli altri, per questo ho aspettato di vedere certe cose. Quello che mi ha chiesto la società è di tornare a essere competitivi e sostenibili, perché il mondo va in questa maniera: dobbiamo avere un occhio per i conti e un altro per la storia della Juventus. Per tornare a essere competitivi in Italia e nel mondo». Queste furono le parole dette da Giuntoli il giorno del suo insediamento ufficiale alla Continassa, in una conferenza stampa che, riletta oggi, costituisce il manifesto di un progetto ambizioso in cui nulla è stato lasciato al caso e che è andato avanti anche quando tutto sembrava fermo. In effetti, quello che è accaduto dal 17 maggio in poi assomiglia tanto a una partita di Risiko che Giuntoli ha voluto giocare senza affidarsi all’aleatorietà dei dadi e delle carte missione, ma programmando ogni mossa con largo anticipo nei mesi in cui, stando ai retroscena – alcuni sono stati raccontati qualche tempo fa da Monica Scozzafava in questo articolo pubblicato sul Corriere della Sera –, pareva essere stato relegato a semplice “uomo immagine” di una società in cui sembrava che a decidere fossero altri. Eppure, se c’è una cosa che dovremmo aver imparato nell’epoca in cui la figura del direttore sportivo vive di una narrazione tutta sua, è che anche l’immobilismo deve essere interpretato attraverso delle chiavi di lettura che sono proprie di questo o di quel personaggio: nel caso di Giuntoli, che se fosse un politico potrebbe essere raccontato come un uomo del fare, il momento delle attese è forse addirittura più importante di quello in cui si concretizza un deciso cambio di paradigma.
Il primo passo è stato quello di ricostruire, con l’aiuto di Francesco Calvo, una catena di comando snella ed efficiente in cui la ripartizione delle competenze tra parte sportiva e parte commerciale fosse netta e ben definita. Proprio come era accaduto nel decennio precedente con Giuseppe Marotta, oggi Giuntoli è diventato l’interfaccia per media e tifosi, l’uomo riconoscibile con cui si identifica la Juventus fuori dal campo senza possibilità di equivoco. Tutto ciò è stato reso possibile dalla rete di collaboratori (primo tra tutti il mitologico Giuseppe Pompilio) che lavorano con e per lui sulla base di specifiche attribuzioni e deleghe e che a lui riferiscono in quanto responsabile unico di un’area tecnica in costante evoluzione: «È sempre difficile parlare di se stessi, ma mi descriverei come un gran lavoratore. Dobbiamo riuscire a mettere da parte l’io e ragionare come un noi. Mi piacerebbe mettere insieme tante teste con un solo cuore» furono, non a caso, le prime parole pronunciate da nuovo plenipotenziario della squadra per cui tifava fin da bambino e per la quale affrontava viaggi in autobus lunghi otto ore e anche di più. Forse è proprio in quelle occasioni che si sono forgiate la pazienza e la temperanza che gli hanno permesso di resistere senza vacillare alla lunghezza della trattativa per portare Teun Koopmeiners a Torino: rispetto a quei veri e propri pellegrinaggi che partivano da Prato, le strenue resistenze dei Percassi devono essergli sembrate una passeggiata di salute.
Il secondo passo si è concretizzato con la scelta di Thiago Motta: una scelta giuntoliana a tutti gli effetti, quindi una scelta di rottura, che ha assunto un significato ulteriore perché arrivata nei mesi in cui Antonio Conte aveva iniziato a mandare i primi segnali sulla volontà di tornare ad allenare in Italia. In altri tempi, che non sono nemmeno poi così lontani, una Juventus in cerca di trofei e identità non avrebbe esitato a richiamare in panchina l’uomo della rinascita all’inizio degli anni Dieci del Duemila, colui che aveva eretto le fondamenta della cattedrale dei nove scudetti consecutivi sul memento dei due settimi posti e sul vincolo dell’appartenenza, del Dna, dell’orgoglio; la Juventus di Giuntoli, invece, ha abbracciato senza compromessi la modernità di un calcio che ai grandi club richiede anche altro, oltre ai risultati, e che sta trasformando in brand la proposta di gioco, il modo di stare in campo e persino l’operato delle società in sede di calciomercato. Vale a dire la parte più vistosa del lavoro di un direttore sportivo, oltre che l’unità di misura tangibile della bontà delle sue decisioni.
Da questo punto di vista la necessità di allestire una squadra che fosse abbastanza competitiva per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, ha costretto Giuntoli a ragionare su un orizzonte temporale piuttosto limitato, in cui la riduzione dei costi della rosa ha dovuto tener conto delle esigenze di due allenatori profondamente diversi come Allegri e Motta. Per questo – come ha sottolineato Giovanni Armanini nell’ultimo numero di Futbolitix, newsletter che analizza lo sport business – l’ultima sessione estiva di mercato particolarmente aggressiva è stata l’ideale contrappeso delle precedenti due in cui si è deciso di non appesantire ulteriormente il bilancio con costi di cui, con ogni probabilità, ci si sarebbe poi dovuti liberare dopo un cambio di guida tecnica che era già stato programmato. Una questione di priorità, quindi, che spiega bene operazioni come Carlos Alcaraz (arrivato a gennaio in prestito con un diritto di riscatto fissato a 50 milioni e praticamente mai utilizzato da Allegri) e Tiago Djalò (attualmente in prestito al Porto e mai davvero nei piani di Motta), o il fatto che, dei giocatori arrivati nell’estate 2023, soltanto Weah e Cambiaso abbiano trovato spazio e minuti nelle rotazioni di questo inizio stagione.
Il corollario ulteriore è costituito dal modo in cui è stata gestita la questione degli esuberi che, a un certo punto, era diventata forse più importante della campagna acquisti stessa: a eccezione di McKennie e Milik, reintegrati per le cause di forza maggiore imposte dalla stagione potenzialmente più lunga di sempre, per la prima volta negli ultimi anni la Juventus ha cominciato un nuovo percorso tecnico senza ritrovarsi a dover gestire tutti quei giocatori che, alla fine della scorsa annata, erano da considerarsi fuori dal progetto. E se Calcio e Finanza ha raccontato quanto questo abbia avuto un impatto positivo sul bilancio, l’efficacia del metodo Giuntoli si rintraccia soprattutto nel come siano stati risolti i casi più spinosi; tenendo il punto nel caso di Federico Chiesa, ceduto al Liverpool negli ultimi giorni di mercato limitando i danni da minusvalenza, e mostrando grande decisione nel voler puntare su Michele Di Gregorio nel momento in cui Wojciech Szczęsny, come raccontato nell’intervista realizzata dallo YouTuber Luca Toselli, aveva manifestato la volontà di ritirarsi alla scadenza naturale del suo contratto.
Quella che è stata consegnata a Thiago Motta, quindi, è una Juventus finalmente libera dai compromessi tecnici e dagli equivoci tattici, una squadra giovane, dinamica, futuribile, costruita seguendo le indicazioni del tecnico, innervata dalla freschezza della Next Gen e illuminata da un numero 10 come Yildiz che è stato messo al centro di tutto dopo nemmeno una stagione tra i professionisti, dopo anni di esaltazione del culto della gavetta nei campi di provincia, della maglia sudata, dei giovani che devono aspettare il loro turno. Il resto ce lo stanno mettendo Motta e il suo staff, alle prese con il tentativo di rendere accessibile a tutti una rivoluzione che in passato, forse, avrebbe causato non poche crisi di rigetto. Una rivoluzione che oggi appare possibile perché ad avviarla è stato l’uomo che, proprio sulle rivoluzioni, ha costruito il percorso che lo ha portato lì dove è oggi, al comando della squadra/società conservatrice per antonomasia. Squadra/società che a lui si è affidata per cambiare la propria storia. Per questo la domanda da porsi oggi non è se la Juventus possa o meno considerarsi come la Juventus di Giuntoli. La domanda da porsi è perché non dovrebbe già esserlo.