Il 13 settembre 2022, durante la sua presentazione ufficiale come nuovo allenatore del Bologna, Thiago Motta fece ruotare quella sua prima conferenza stampa da tecnico rossoblù attorno ad un unico concetto chiave, e cioè quello di un’identità di squadra in divenire, che sarebbe stata definita non da quelle che potevano essere le sue convinzioni iniziali ma dal lavoro quotidiano sul campo: «Non voglio parlare di moduli. Mi piacciono le squadre che giocano in maniera offensiva, ma con equilibrio, vorrei una squadra che attacchi l’avversario non appena perde palla e che reagisca, in cui l’attaccante è il primo difensore. Abbiamo iniziato un lavoro diverso di cui vedrete i frutti sul campo, durante le partite». Thiago Motta disse queste parole stando bene attento a declinare i verbi al condizionale in luogo dell’indicativo presente che di solito viene utilizzato in questi casi. Quasi come se volesse sottolineare la differenza che passa tra speranze e possibilità, tra realtà e desiderio.
Quando, tra qualche giorno, si siederà di fronte ai giornalisti come nuovo allenatore della Juventus, è molto probabile che Thiago Motta risponderà nello stesso modo alle domande che gli verranno fatte. E non solo perché, da quella conferenza stampa a Casteldebole saranno passati meno di due anni, un lasso di tempo relativamente breve per ipotizzare un deciso cambio della propria strategia di comunicazione. L’italo-brasiliano arriva a Torino per ricostruire da zero sulle macerie di un progetto tecnico fallimentare e che ha evidenziato la necessità di un reset culturale e filosofico. E per farlo avrà bisogno di ripensare sé stesso ancora una volta, dopo aver passato tutta la prima parte della sua carriera a lottare contro stereotipi ed etichette, a dimostrare che lui è uno che fa sul serio e che è in grado di trovare una sintesi tra le sue idee e quelle degli altri in funzione della creazione di un sistema che sia prima di tutto efficace, efficiente ed adeguato alla squadra che allena.
«La diversità culturale della Serie A, per la molteplicità dell’approccio o per contrasto delle nozioni a me care, ha permesso di alimentare ancor più la mia riflessione sulla centralità del pallone nell’espressione sia del gioco personale che collettivo, completando convinzioni e principi, anche nell’applicazione di fondamenti calcistici opposti». Queste parole sono tratte dell’introduzione della sua tesi per il master di Coverciano, uno scritto in cui Thiago Motta in qualche modo ha anticipato quello che è stato l’elemento chiave del suo successo in questi primi cinque anni di panchina: dare un seguito – cioè un’applicazione pratica – a tutto ciò che aveva appreso da calciatore, giocando per allenatori anche molto diversi tra loro.
Qualche anno fa, a margine della cena natalizia della Juventus, l’allora presidente Andrea Agnelli citò Jack Welch, ex CEO di General Electric, parlando della «necessità di cambiare prima di essere costretti a farlo». Ecco, si può dire che Thiago Motta sia riuscito a passare dallo Spezia alla Juventus in poco più di tre anni proprio perché ha intuito, lui per primo, quando doveva cambiare, adattarsi, evolvere, elaborando un modello che parte dal calcio posizionale e poi si sviluppa attraverso le relazioni e le associazioni create dai giocatori in campo: «Mi piace molto parlare delle caratteristiche dei giocatori piuttosto che dei moduli con cui può giocare la squadra. Oggi la cosa più difficile è fare un calcio semplice: nel calcio moderno non ci si può permettere di non difendere e di non attaccare», dichiarò Motta nel 2019, appena ingaggiato dal Genoa al posto di Aurelio Andreazzoli. Parole che sembrano uscite direttamente dalla bocca di Massimiliano Allegri, un tecnico di cui Motta rappresenta l’ideale opposto per quello che riguarda la dicotomia tra calcio attivo e reattivo. Anche per questo provare, a immaginare come potrebbe essere la Juventus di Thiago Motta rischia di trasformarsi un esercizio di stile che potrebbe essere svuotato di ogni senso già dopo le prime settimane di allenamento, quando sarà più chiara la strada intrapresa in relazione al materiale tecnico e umano che gli verrà messo a disposizione nella prossima sessione di mercato.
Quello che invece non è necessario immaginare – e che, viceversa, può essere considerato come un primo punto di partenza – è la portata dell’impatto che una scelta di rottura come quella di Thiago Motta rappresenta. Il suo arrivo, anche se è ancora da ufficializzare, ha già avuto un effetto sull’ambiente della Juve. Perché Thiago Motta non è il Maurizio Sarri fagocitato e poi esautorato da uno spogliatoio che non gli riconosceva l’autorità per guidare una squadra che doveva vincere anche la Champions League, e non è nemmeno l’esordiente Andrea Pirlo che in poche settimane passa dalla panchina dell’Under-23 a quella della prima squadra quasi per un capriccio presidenziale, come se le Juventus volesse dimostrare a sé stessa e al mondo di poter vincere anche così: Thiago Motta è la prima scelta della Juventus, lo è stata fin da gennaio nell’anno in cui Antonio Conte torna ad allenare in Italia, Thiago Motta è il volto del cambiamento annunciato da Agnelli e che arriva con cinque anni di ritardo.
Un cambiamento che questa volta sembra reale, nei fatti e non solo nelle parole, come dimostra la ristrutturazione dell’assetto societario guidata da Cristiano Giuntoli e Francesco Calvo. E che ribalta quelle che, fino a questo momento, erano le prospettive e le percezioni che hanno accompagnato tutti i recenti avvicendamenti in panchina; se, fino ad oggi, si pensava che dovesse essere l’allenatore a generare quasi da solo la spinta propulsiva verso un diverso tipo di approccio e di visione del gioco, il fatto che Giuntoli abbia lavorato sottotraccia per creare una struttura adeguata ad accogliere Motta sembra suggerire che, questa volta, sia stata la Juventus a cercare di agire per prima in questo senso, iniziando a cambiare invece di aspettare passivamente di essere cambiata da un uomo della provvidenza che poi non trovava mai le condizione per riuscire effettivamente a farlo.
Insomma, siamo alla vigilia della stagione più importante nella storia recente della Juve. Anche perché l’arrivo di Thiago Motta, in qualche modo, potrebbe mettere fine alla guerra infinita tra giochisti e resultadisti, una faida che, nell’ultimo triennio, ha inquinato le valutazioni sull’effettivo valore della rosa bianconera. Come potrebbe avvenire? Col lavoro sul campo, un lavoro che dimostrerebbe come gioco e risultati siano due facce della stessa medaglia, certo, ma anche che non tutte le rivoluzioni necessitano di cesure brutali e di damnatio memoriae. In questo senso Motta può essere considerato un tiranno gentile, un rivoluzionario moderato, che condivide con gli altri le sue idee più che imporle, che spinge in direzione della comprensione del contesto più che verso l’accettazione di una verità unica e inderogabile. In lui non c’è l’intransigenza manichea di Sarri o la visionarietà senza compromessi di De Zerbi, piuttosto una volontà di potenza figlia delle contaminazioni, delle sperimentazioni, della complementarietà delle esperienze di vita e di calcio, una condizione che lo porta a interrogarsi continuamente su sé stesso e su ciò che lo circonda, come se fosse un personaggio sempre in cerca dell’autore più adatto alla specifica situazione.
Da questo punto di vista la scelta di Giuntoli è davvero «una decisione molto naturale, molto juventina», riprendendo un’espressione utilizzata da Fabio Paratici quando si trattò di spiegare Andrea Pirlo allenatore della Juventus: aspettare che Thiago Motta consolidasse e confermasse il proprio status – a Bologna o in un’altra piazza equivalente – avrebbe significato rischiare di vederlo partire verso campionati più ricchi e attrattivi, perdendo un treno che potenzialmente passa una volta ogni dieci anni e rimandando ancora un cambiamento che poteva e doveva partire solo così, solo con lui, solo con (un) Thiago Motta. E invece stavolta si è tornati sì al passato ma nel modo giusto, con uno sguardo deciso e decisivo al presente e al futuro, come quando si decise di affidare la panchina della squadra più importante d’Italia a Marcello Lippi ed Antonio Conte.
A proposito. A un certo punto, negli scorsi mesi, sembrava scontato che sarebbe toccato di nuovo a Conte allenare la Juventus, perché eravamo stati abituati a pensare che solo Conte potesse essere l’allenatore giusto per ricostruire la squadra bianconera. In fondo sarebbe stata la mossa più semplice e più sicura, una mossa che la vecchia Juventus avrebbe con tutta probabilità già fatto; ma quella Juventus non esiste più, quella Juventus ha lasciato il posto a una nuova Juventus. La Juventus di Thiago Motta, una Juventus tutta da scoprire. Fin dalla prima conferenza stampa.