Gli allenatori migliori sono quelli che si sanno adattare?

Spalletti, Sarri e Simone Inzaghi hanno una visione fluida, che si è plasmata sui giocatori a disposizione. Anche per questo sono i candidati al premio di Miglior Allenatore dell’Anno al Gran Galà del Calcio AIC 2023.

Da quando Luciano Spalletti è diventato il commissario tecnico della Nazionale, in ogni sua conferenza stampa si parla di calcio. Potrebbe sembrare un’ovvietà, e invece si tratta un particolare significativo e non scontato, tanto più in un contesto e in un momento in cui le considerazioni tattiche e tecniche sono state spesso poste in secondo piano rispetto alle valutazioni emotive e gestionali. Come è persino normale che sia quando si è chiamati ad allenare un gruppo eterogeneo di giocatori che si ritrovano tra loro cinque o sei volte l’anno e che hanno a disposizione pochi giorni e pochissimi allenamenti per trovare la coesione necessaria per affrontare una partita potenzialmente decisiva.  

Eppure, anche alla vigilia della gara-spareggio contro l’Ucraina a Leverkusen, Spalletti ha spostato il focus delle sue dichiarazioni su ciò che sarebbe accaduto sul campo, nonostante nella mente di tutti aleggiassero ancora gli spettri della notte di Palermo contro la Macedonia del Nord e dei rigori sbagliati da Jorginho contro la Svizzera nel girone di qualificazioni ai Mondiali 2022: «Fin da quando abbiamo iniziato a lavorare ci siamo creati uno stile che ci porteremo dietro anche domani sera. Certo c’è sempre un equilibrio da mantenere e un livello di attenzione che dovrà essere maggiore rispetto al solito ma non possiamo perdere il filo con il nostro modo di stare in campo che secondo me è molto corretto. Loro saranno costretti con il passare dei minuti a forzare la partita ma a noi non cambia nulla: quando ci sarà il momento di pressare lo faremo, quando invece non saremo in ordine si concederà qualcosa, se necessario» ha dichiarato Spalletti, quasi a voler sottolineare come l’unico modo per esorcizzare le paure fosse, appunto, quello di giocare a calcio, di fare le cose che possono essere allenate e controllate, almeno in parte.

Il fatto che, poi, la partita sia andata esattamente come aveva previsto, sia nel bene (i primi 60’) che nel male (le lunghe fasi di difesa posizionale quando sono venute meno le energie fisiche e mentali), è il dettaglio che racconta meglio di tante parole l’approccio di Spalletti, ciò che racchiude l’essenza del suo essere allenatore, anzi dell’essere in generale un allenatore nel calcio di oggi: cioè sviluppare in maniera coerente le qualità individuali e collettive all’interno delle sovrastrutture pensate per vincere le partite, vale a dire lo strumento per raggiungere il fine ultimo di qualsiasi sport professionistico. Si tratta di una precisazione ridondante ma necessaria, tanto più nell’epoca della polarizzazione a ogni costo, in cui il dibattito intorno a chi siede su una panchina si è incardinata sull’assurda dicotomia tra giochisti e risultatisti, come se esistessero davvero dei tecnici che lavorano in funzione di un imprecisato valore estetico e non di un obiettivo. E invece, volendo parafrasare uno dei più famosi claim pubblicitari degli anni Novanta, la bellezza – di un calcio offensivo – è nulla senza organizzazione, senza cioè quella componente utilitaristica che è alla base del senso stesso della competizione, a qualsiasi livello.

Persino Maurizio Sarri, che ha costruito la sua legacy sull’utopia e sulla rivendicazione politica della bellezza come mezzo e fine, ha portato la Lazio al miglior piazzamento in campionato negli ultimi ventitré anni dopo aver ceduto al compromesso di un sarrismo meno estremizzato e più razionale, sacrificando parte della sua visione per andare incontro alle esigenze e alle caratteristiche dei giocatori che aveva a disposizione: «Sono tornato a divertirmi in allenamento durante la settimana. Questo vuol dire che la squadra sta facendo bene. Ho visto un cambio di mentalità notevole e probabilmente riesco a trasmetterlo anche ai giocatori». Queste parole sono state pronunciate da Sarri dopo la vittoria contro lo Spezia a metà aprile, un successo che consolidò le ambizioni della Lazio, a fine anno seconda in campionato davanti alle due milanesi. 

Non è, perciò, un caso che sia Sarri che Spalletti siano due dei tre candidati al premio di “Miglior allenatore dell’anno” che verrà assegnato lunedì 4 dicembre al Gran Galà del Calcio, l’evento organizzato dall’Associazione Italiana Calciatori che premierà i grandi protagonisti della stagione passata. Così come non è un caso che il terzo candidato sia Simone Inzaghi, diventato il tecnico perfetto per l’Inter in questa fase storica attraverso un percorso progressivo e virtuoso di valorizzazione del materiale tecnico e umano:  «Nella carriera di allenatore penso che si cresca sempre, non esiste un punto di arrivo, si può sempre migliorare, anche quando si raggiungono traguardi importantissimi. […] A mio avviso, il fulcro della nostra professione è la crescita continua, il sapersi sempre aggiornare e migliorare dal punto di vista tecnico, tattico e umano». Queste frasi sono scritte nella tesi di Inzaghi per ottenere il master Uefa Pro di Coverciano, un lavoro incentrato principalmente sull’importanza del lavoro quotidiano anche in chiave di gestione delle dinamiche tra un allenatore e la sua squadra. 

In effetti, ciò che accomuna i tre tecnici in nomination è proprio il lavoro di e sul campo, metodico e certosino, finalizzato allo sviluppo del talento e all’esaltazione di un sistema che può essere diverso per caratteristiche, inclinazioni e declinazioni ma che ha come fine ultimo il raggiungimento di un risultato, sempre e comunque. Da questo punto di vista quello che ha fatto Spalletti a Napoli è qualcosa di unico e potenzialmente irripetibile, soprattutto se si considera la particolarissima dimensione spazio-temporale in cui si è trasformato nel vero “braccio armato” della rivoluzione filosofica e culturale voluta da Aurelio De Laurentiis e portata avanti sul mercato in maniera radicale da Cristiano Giuntoli, che ha allestito una squadra finalmente libera dai debiti tecnici ed emotivi verso un gruppo di calciatori che aveva fatto la storia recente del club. Per arrivare al terzo scudetto della storia del Napoli, però, è stato necessario che Spalletti operasse su due livelli e per step: in una prima fase ha dovuto ricostruire quell’identità tattica che era andata perduta nel quinquennio precedente, in cui si era inutilmente cercata una sintesi efficace – o comunque migliore del 4-2-3-1 di Gattuso – tra i rigidi dogmatismi di Sarri e i principi liquidi e multiformi del calcio di Ancelotti; in seguito ha poi creato un plusvalore tecnico ed economico in quelli che c’erano già (Mário Rui, Lobotka, Meret, Osimhen e Rrhamani) e in quelli che erano appena arrivati (Kim, Kvaratskhelia, Simeone). Qualcosa che si è poi tradotto sul campo in un vantaggio abissale e non misurabile nemmeno attraverso i punti di vantaggio sulle concorrenti più o meno dirette. 

Quello di Inzaghi, se vogliamo, è stato un player development persino più vistoso ed estremo: il tecnico dell’Inter ha dovuto tradurre, nella pratica del campo e degli obiettivi da raggiungere, la necessità del suo club di autofinanziarsi con una cessione eccellente l’anno. In questo senso le modalità con cui Inzaghi è riuscito a minimizzare l’impatto delle partenze che si sono susseguite in questi due anni e mezzo – Lukaku (due volte), Perisic, Skriniar, Onana, Dzeko, Brozovic, in rigoroso ordine cronologico – ha costituito e costituisce il motivo per cui i nerazzurri sono così competitivi nonostante le contingenze economiche vadano in direzione ostinata e contraria. E questo si è avvertito e si avverte ancora soprattutto in Europa, dove il ribaltamento di prospettive e percezioni fa sì che l’Inter non sia per forza la squadra più forte o una delle più forti, anzi: al di là della finale di Istanbul raggiunta attraverso un percorso caratterizzato da una solidità e una coerenza che prescindeva dal valore dei singoli avversari, nelle serate di coppa la capacità di Inzaghi di valorizzare i vari Dimarco, Bastoni, Calhanoglu, Thuram, Dumfries è emersa in maniera ancora più netta, facendo risplendere di luce propria questi suoi personalissimi diamanti. Senza dimenticare la definitiva esplosione di Lautaro Martínez, che con Inzaghi ha finalmente raggiunto quella dimensione da attaccante d’élite che tutti immaginavamo fosse nelle sue corde, ma che a un certo punto della carriera non era stata ancora raggiunta. Una valutazione che può estendersi dal particolare al generale, perché se oggi viene naturale considerare l’Inter come la favorita numero uno allo scudetto, e/o come un’outsider di lusso in Champions, è anche per il modo in cui Inzaghi l’ha resa tale partita dopo partita, stagione dopo stagione. 

Tra i candidati al premio come Miglior Allenatore dell’Anno per la stagione 2022/23, Maurizio Sarri è l’unico ada ver già conquistato il premio: è successo nel 2017, quando sedeva sulla panchina del Napoli (Valerio Pennicino/Getty Images)

Per Sarri, come detto, il discorso è diverso ma parte da una visione comune. La sua etica del lavoro, la cura dei dettagli, la capacità di convincere i giocatori che il suo è l’unico sistema per farcela – quindi per vincere o, almeno, per competere – non sono mai stati in discussione; piuttosto ci si chiedeva se dopo la parentesi alla Juventus, non proprio entusiasmante, sarebbe stato in grado di rimodulare l’integralismo di certe sue convinzioni per adattarsi al meglio a una nuova realtà. Dopo un primo anno di assestamento, la sua seconda Lazio è stata una macchina magari non perfetta ma comunque efficace, in grado di andare oltre le aspettative di bellezza a tutti i costi e di raggiungere un secondo posto che ha del miracoloso considerando i valori e la base di partenza rispetto a squadre teoricamente più ricche e più attrezzate. Per riuscirci, Sarri ha continuato a fare quello che ha sempre fatto: lavorare tanto sul campo, mentre sperimentava soluzioni diverse e ulteriori per adattare il suo calcio alla sua squadra in maniera contro-intuitiva rispetto a quello che ci si sarebbe aspettato da lui. Quindi curando ancora di più la fase difensiva (suo fiore all’occhiello anche negli anni splendenti di Napoli) così da ovviare alle controindicazioni di una manovra offensiva che doveva vivere sull’estremizzazione del concetto di verticalità per sfruttare al meglio le caratteristiche di Immobile, un centravanti teoricamente antitetico alla visione sarriana di numero 9, ma che Sarri ha saputo esaltare – 39 gol in 62 gare di campionato tra il 2021 e il 2023. 

Scorrendo l’albo d’oro del premio è possibile osservare come nelle ultime edizioni i vincitori siano quasi sempre stati allenatori che hanno saputo esaltare il gioco attraverso un’applicazione quotidiana delle proprie idee e un aggiornamento continuo del proprio lavoro, perché è così che si ottengono i risultati. Il 2023 non farà, perciò, eccezione: non resta che aspettare per scoprire chi tra Luciano Spalletti, Simone Inzaghi e Maurizio Sarri succederà a Stefano Pioli.