Il solito Mourinho non poteva più bastare

La sua Roma non ha raggiunto risultati all'altezza, e le colpe sono anche sue.

Cinque anni e un mese fa, all’indomani del suo addio al Manchester United, si parlava di José Mourinho come di un allenatore ormai superato, troppo legato a uno stile di gioco anacronistico, troppo concentrato sulle dinamiche emotive del calcio, troppo teso a sovraccaricarle, piuttosto che a inseguire una reale evoluzione in senso tattico. E le stesse identiche cose si dicevano anche quando è stato esonerato dal Tottenham. Ecco, questi vecchi discorsi si potrebbero prendere e si potrebbero volgere integralmente al tempo presente. Basterebbe cambiare solo alcune parole, alcuni nomi, e trapiantare tutto a Roma: all’inizio, nei momenti belli, nei momenti meno belli e fino alla fine della sua avventura giallorossa, Mourinho non ha fatto altro che interpretare il ruolo che si è autoassegnato molti anni fa, ovvero quello del tecnico che stabilisce una profonda connessione psicologica con l’ambiente intorno a sé, che pratica un calcio fatto di attesa e di ripartenze, che rivendica i trofei che riesce a vincere e i giovani che riesce a lanciare, non importa la loro reale consistenza, che va male in campionato ma va decisamente meglio nelle coppe, che nel frattempo dichiara guerra a tutti, ma proprio a tutti, agli arbitri, agli avversari, ai giornalisti, persino alla sua stessa società – perché, naturalmente, il calciomercato non è mai stato davvero all’altezza.

Una cosa va detta: nell’ambiente-Roma, il modello Mourinho è stato apprezzato. Per tanti mesi, a dirlo sono stati i continui sold-out registrati all’Olimpico, è esistita una simbiosi reale, totale, tra la squadra e la sua tifoseria. Come al solito, e in queste cose Mou resta un venerabile maestro, l’allenatore si è trasformato in un formidabile aggregatore popolare: ha scannerizzato presto e bene il suo nuovo contesto, ne ha appreso i rudimenti psicosomatici e poi ha fatto in modo che le persone si fidassero di lui, le ha arringate continuamente, le ha trasformate in un’emanazione della sua psiche. E queste persone, naturalmente, non sono solo i tifosi: parliamo anche dei giocatori, di una parte dei giornalisti, di una parte della dirigenza. Mou, in pratica, è riuscito a costruirsi una falange difensiva perennemente in servizio, un piccolo esercito in grado di supportarlo, di comprendere i suoi umori, di condividere le sue battaglie. Di difenderlo.

Ecco, visto che Mourinho è sempre lo stesso, nel bene e nel male, il discorso da fare oggi riguarda proprio la difesa di Mourinho. La difesa a oltranza di Mourinho. Come in tutte le cose della vita, è chiaro che ci fossero dei limiti. E quei limiti, almeno per la Roma-società, sono stati superati. La questione è strettamente legata al rendimento sul campo: l’attuale settimo posto in campionato, le nove sconfitte in 28 gare stagionali, l’eliminazione in Coppa Italia e il secondo posto nel girone di Europa League sono dei risultati al di sotto delle attese, soprattutto se pensiamo che questa era la terza annata di Mourinho in panchina, e allora era lecito aspettarsi qualcosa di più. Allo stesso modo, va ricordato che la Roma 2023/24 è riuscita a non vincere tutti gli scontri diretti stagionali, a parte la sfida interna contro il Napoli, a segnare zero gol in due derby. E poi non ha mai manifestato alcun miglioramento nell’espressione di gioco, nel senso che la proposta collettiva è rimasta uguale a se stessa, mentre la stragrande maggioranza dei giocatori in rosa non sembra aver sviluppato il suo potenziale.

È chiaro che Mou abbia delle attenuanti: le difficoltà economiche e quindi i problemi della Roma nel muoversi sul mercato, la conseguente confusione in società, gli infortuni frequenti e ripetuti, l’inadeguatezza di certi giocatori. Il problema è che Mourinho, come allenatore e al netto di tutte queste scusanti, è riuscito a garantire troppo poco. La sua chiara inclinazione a inseguire solo il risultato, solo determinati risultati, ha ristretto troppo gli orizzonti della Roma-società. La vittoria in Conference League, per dire, ha entusiasmato la tifoseria ma non ha migliorato realmente la dimensione del club giallorosso, cosa che invece sarebbe successa conquistando una qualificazione in Champions League. Certo, è evidente che la vittoria in Europa League – accarezzata e soltanto sfiorata – avrebbe cambiato completamente il senso e la percezione dell’era-Mourinho, ma il punto è proprio questo: un tecnico che fonda tutto ciò che fa – la sua strategia, il suo lavoro quotidiano in allenamento, il suo rapporto con la dirigenza, la sua comunicazione verso l’interno e verso l’esterno, le sue pièce teatrali in panchina – sul primato del risultato ha il dovere di restituire dei risultati all’altezza delle aspettative. E una finale persa, per definizione stessa del mourinhismo, non è un risultato: è una finale persa, è una sconfitta. Anche perché la Roma, dopo la partita contro il Siviglia, si è ritrovata senza niente in mano. E così ha dovuto riprogettare completamente il suo futuro.

Se poi consideriamo che gli ingaggi dei giocatori presi per Mourinho – Lukaku, Paredes, Renato Sanches – hanno portato la Roma ad avere il terzo monte stipendi della Serie A 2023/24, allora la situazione diventa molto più definita, molto più netta: la retorica di Mou sulla rosa non all’altezza è vera fino a un certo punto, quindi il rendimento della squadra giallorossa deve essere ritenuto insoddisfacente. Soprattutto in assenza di un gioco e quindi di un intrattenimento godibile. E non ci sono scusanti, e non ci sono attenuanti, non ci si può opporre a questo dato sbandierando l’unità tra squadra e tifoseria, i sold out dell’Olimpico, una finale persa anche a causa di alcune decisioni discutibili dell’arbitro. Per evitare l’esonero, Mourinho avrebbe dovuto portare, fare ed essere qualcosa in più rispetto alle sue ultime versioni. Non è andata così, e a dirlo non sono più solo i suoi presunti detrattori: ora lo ha detto anche la Roma, la sua stessa società. Il resto è politica, oppure è nostalgia.