Secondo il teorema di un’inglese illustre come Agatha Christie, quello per cui tre indizi fanno una prova, oramai non ci sono più dubbi: gli scout e gli operatori di mercato dell’Arsenal sono affetti da una profondissima e inguaribile fascinazione per i giovani difensori che si impongono in Serie A. Se guardiamo agli ultimi tre anni, infatti il club di Londra ha acquistato Takehiro Tomiyasu dal Bologna, Jakub Kiwior dallo Spezia e ora sta per concludere l’operazione relativa a Riccardo Calafiori, un altro giocatore del Bologna. Da un punto di vista strettamente tecnico ed economico, al di là delle cifre investite e incassate, si tratta di tre affari abbastanza simili tra loro: un club ricco di una lega ricchissima ha deciso di puntare su profili giovani e che erano/sono ancora fuori dall’élite, ma che al tempo stesso avevano già dimostrato di essere all’altezza in un contesto competitivo come quello della Serie A. Detto questo, è necessario fare dei distinguo, nel senso che è necessario rilevare e ammettere come l’acquisto di Calafiori rappresenti qualcosa di diverso, qualcosa di più, per il nostro movimento. Per l’Italia calcistica.
Intanto va detto che il passaggio di Calafiori all’Arsenal rientra in un trend ormai consolidato: un anno dopo i trasferimenti di Tonali e Vicario, anche se naturalmente bisogna ragionare al netto dei problemi giudiziari/personali capitati all’ex centrocampista del Milan, un altro calciatore italiano è sbarcato in Premier League come potenziale titolare in una squadra di vertice, quindi come una potenziale stella del campionato più bello e più difficile del mondo. Era ciò che serviva ed è esattamente ciò che serve al nostro calcio, alla nostra Nazionale: agli Europei, infatti, l’Italia di Spalletti ha commesso/pagato una gigantesca serie di errori e di bug di sistema, ma ha anche manifestato una chiara disabitudine a partite di primo livello. E l’unico modo per cambiare questa situazione, semplicemente, è che i calciatori italiani giochino più gare di primo livello e contro avversari di primo livello. Possibilmente in Champions e/o in Premier League.
Un altro aspetto di cui è opportuno parlare riguarda il timing di questa operazione: Calafiori sta per passare all’Arsenal – in cambio di una cifra che, per altro, dovrebbe superare i 50 milioni di euro – al termine della sua prima stagione da titolare in Serie A. Senza un adeguato periodo di apprendistato, quindi, almeno secondo la visione di alcuni analisti od opinionisti. Non era successo per Tomiyasu, che ha viaggiato sulla tratta Bologna –> Londra dopo due stagioni intere in rossoblu; e non era successo per Kiwior, acquistato dai Gunners dopo un anno e mezzo vissuto a La Spezia. Questa differenza, per quanto possa sembrare sottile, è piuttosto significativa: in primis ci dice che Calafiori è un talento raro e quindi prezioso, ma soprattutto ci conferma che i vecchi schemi mentali del calciomercato, quelli per cui i grandi club acquistano solo giocatori pronti a vincere, sono ormai superati. Anzi, sono una reminiscenza del Pleistocene, o giù di lì.
Per capire cosa intendiamo, che poi in pratica significa ribadire l’ovvio, basta guardare alle politiche attuate da Real Madrid e Manchester City, i due club migliori – e per distacco – del calcio europeo. Vi segnaliamo due storie di mercato su tutte, una per società: negli ultimi anni il Real Madrid si sta concentrando sul suo vivaio e su profili giovani, meglio ancora se Under 18 e brasiliani, ed è così che ha costruito la solidità economica necessaria per arrivare a piazzare il colpo-Bellingham, il colpo-Mbappé; il City, dal 2016 a a oggi, ha comprato solo due giocatori con una Champions League già in bacheca, Danilo e Kovacic, mentre tutti gli altri erano dei talenti ancora da plasmare, ancora da valorizzare ai massimi livelli.
Potremmo aggiungere che da anni siamo nell’era dei calciatori-teenager, potremmo aggiungere che da alcuni anni la Premier League – dove, inevitabilmente, confluiscono i migliori giocatori, i migliori tecnici e i migliori manager del mondo – ha abbassato l’età media dei suoi obiettivi di mercato, ma il senso ormai dovrebbe essere chiaro: i 50 milioni investiti per il 22enne Calafiori, dal punto di vista dell’Arsenal, non sono un rischio. Oppure, per dirla meglio, sono un rischio perché qualsiasi operazione di calciomercato è soggetta a incognite non governabili, ma il tempo e il prezzo e il senso dell’affare non sono in discussione, sono esatti, sono perfetti: in fondo stiamo parlando di Calafiori, vale a dire di un difensore moderno ma anche classico, perfettamente a suo agio quando si sgancia palla al piede e quando deve marcare e braccare agli attaccanti aversari, che può giocare in sistemi diversi, in ruoli diversi. E che è riuscito a brillare anche in una squadra disfunzionale – per usare un eufemismo – come l’Italia di Spalletti.
Tutto questo ben di dio calcistico ha meno valore perché Calafiori ha zero presenze in Champions League e solo cinque in Nazionale? Forse sì, chissà. Ma il punto è che certi criteri valutativi non sono più validi. O meglio: sono diventati meno importanti di altri parametri. È un discorso di pesi, di priorità, ma soprattutto di convenienza economica: oggi come oggi, cioè nell’era contemporanea, i grandi club fanno mercato guardando all’oggi e al domani, anzi spesso antepongono il domani all’oggi; accettano l’eventualità di poter perdere qualche punto nelle prime cinque, dieci, venti partite, ma lo fanno in modo da ottenerne di più, almeno potenzialmente, tra una stagione o due; male o malissimo che vada, potrebbero/potranno rendersi conto di aver sbagliato valutazione, di aver sbagliato calciatore, ma di certo avranno più margine per poter rientrare – anche solo parzialmente – dall’investimento iniziale, a differenza di quanto avviene per un 29enne considerato già pronto, magari acquistato a parametro zero.
Il passaggio di Riccardo Calafiori all’Arsenal, insomma, è una benedizione. Ed è una lezione. Perché ci spiega che il talento paga e può pagare tanto, perché ci mostra che in Serie A e in Italia c’è ancora qualità. Ma soprattutto perché ci dimostra che questa qualità, per manifestarsi, ha bisogno che si manifestino altre virtù, però da parte di dirigenti e allenatori: il coraggio di puntare sui giovani senza farsi condizionare dalla retorica dell’esperienza e della gavetta, la fiducia in questo tipo di approccio nonostante qualche inevitabile errore iniziale da parte dei calciatori, la convinzione per cui questa sia la strada giusta, se l’intenzione è quella accorciare il gap con altri campionati, con altri movimenti. Anzi, in realtà è l’unica strada possibile.