Chi ha ucciso il Tiqui-Taca?

Pep Guardiola e i suoi discepoli, anche quel Mikel Arteta con cui si gioca il titolo in Premier, vengono ancora associati a quei concetti di gioco. Ma in realtà si tratta di un calcio ormai sbiadito.

Nell’autunno 2023 ha compiuto dieci anni la frase più celebre – e, paradossalmente, anche la meno ricordata – pronunciata da Pep Guardiola: «Questo è il Tiqui-Taca. Ed è una merda». Genesi e contesto sono ormai noti, anche perché sono stati raccontati da Martì Perarnau nel libro Herr Pep uscito nell’ottobre del 2014, cioè un anno dopo gli eventi narrati. Durante i primi mesi da allenatore del Bayern Monaco il tecnico catalano aveva notato come i suoi giocatori fossero in qualche modo condizionati dalla necessità di emulare lo stile e l’approccio del suo primo Barcellona, forzandosi a giocare in un modo che non gli era congeniale e per di più senza che nessuno glielo avesse richiesto o imposto. Come se la sua sola presenza costituisse un limite intrinseco allo sviluppo del talento individuale e collettivo, un obbligo a percorrere quella che sembrava essere l’unica direzione possibile anche se la realtà del campo stava mostrando il contrario. Così, dopo una serie di brutte prestazioni in Bundesliga, Pep radunò la squadra all’interno della sala video del centro sportivo di Säbener Straße e mostrò una serie di filmati in cui quell’inutile giropalla a forma di U venne definito «una schifezza, una porcheria che non serve a niente, l’onomatopea del possesso fine a sé stesso. Il pallone dovrebbe essere appoggiato ai compagni con l’obiettivo di attaccare l’avversario, con l’idea di essere sempre aggressivi e pericolosi in fase offensiva».

Se il gol di Sergio Ramos alla Danimarca in una partita di qualificazione agli Europei del 2008 è stato considerato l’inizio dell’età dell’oro del calcio di possesso alla spagnola, il discorso di Guardiola ai giocatori del Bayern sei anni dopo ne rappresenta l’ideale epitaffio, il sale sparso sulle rovine di una rivoluzione che proprio il Bayern – allenato da Jupp Heynckes – aveva contribuito ad arrestare in maniera definitiva qualche mese prima, segnando sette gol (e non subendone nessuno) nelle due semifinali di Champions League giocate contro il Barcellona. La squadra blaugrana era sì allenata da Tito Vilanova, ma risentiva ancora delle influenze e dei lasciti tattici, tecnici ed emotivi di Pep.

Un massacro calcistico

Quel giorno Pep Guardiola gettò le fondamenta su cui avrebbe poi edificato la sua nuova cattedrale, adattando i principi del gioco di posizione alle necessità imposte da un calcio sempre più diretto e verticale, giocato da super-atleti in grado di azzerare i tempi di azione e reazione e di processare le informazioni con una velocità di piede e di pensiero mai vista prima. Le sue squadre non avrebbero mai più giocato come il Barça del quadriennio 2008-2012, piuttosto avrebbero implementato un sistema per cui l’idea di creazione di superiorità numerica e posizionale si sarebbe retta su un reticolato di tocchi in verticale nello spazio alle spalle di seconda e terza linea di pressione. Una visione che, come avrebbe notato anche Perarnau, costituiva «una riscrittura del calcio introdotto da Louis van Gaal durante i suoi due anni in Baviera». Di fatto Guardiola aveva già iniziato la sua opera di distruzione e superamento del guardiolismo più radicale ed esasperato, anche se ogni sconfitta in Champions League del suo Bayern veniva comunque raccontata come la celebrazione del funerale del Tiqui-Taca, imposta dal contemporaneo emergere di un calcio costruito sul «successo della rigidità difensiva e su rapidi contropiedi, due elementi che suggeriscono un’altra evoluzione tattica» – così scrisse ad esempio Jonathan Wilson sul Guardian il 1 maggio 2014, due giorni dopo il 4-0 netto che il Real Madrid rifilò al Bayern in un match giocato all’Allianz Arena. 

Nacquero così i primi tentativi di melting pot con cui, riprendendo una felice espressione di Sandro Modeo, Guardiola ha cercato progressivamente «di adeguare-ritarare al contesto il telaio spaziotemporale del suo gioco» fino ad arrivare alle più recenti versioni del suo Manchester City, che rappresentano l’ultimo stadio dell’evoluzione imposta dal confronto quotidiano con un calcio fisico, brutale e immediato come quello praticato dal Liverpool di Jurgen Klopp, il deuteragonista perfetto dell’ultimo quinquennio. Mentre il suo City sfidava i Reds, Pep ha portato la sua versione di compromesso tra passato, presente e futuro a un nuovo livello di sofisticatezza e ambizione: gli inverted fullbacks, la linea difensiva con tre centrali puri e il quadrilatero fluido a centrocampo, reso possibile dall’avanzamento di Stones in funzione del 2-3-5 in fase di possesso, sono le tappe disseminato lungo un cammino che Guardiola ha percorso mentre il resto del mondo continuava a pensare che certe squadre – e, quindi, certi allenatori: Guardiola appunto, il già menzionato Vilanova, ma anche il primo Luis Enrique, Del Bosque, Juanma Lillo – potessero giocare solo in un certo modo. Per una questione identitaria e di aderenza a un certo tipo di modello prima ancora che tecnica e tattica.

Se oggi, invece, la Premier League è uno dei laboratori tattici più importanti d’Europa, dove persino una squadra della media borghesia come il Brighton può permettersi un allenatore come De Zerbi che sta cercando di spostare ancora un po’ più in là il concetto di vantaggio posizionale generato dalla costruzione dal basso, è proprio grazie al lavoro di destrutturazione del suo modello che Guardiola ha attuato con metodica scientificità, arrivando per gradi al prodotto finito che vediamo oggi. Insomma, tutto nasce dalla morte del Tiqui-Taca. E sì, anche le eliminazioni in Champions League e le partite perse contro Tuchel e Klopp hanno avuto un peso, in questa scomparsa: Guardiola doveva toccare con mano quanto, come e dove quel sistema non funzionasse più per capire quanto, come e dove intervenire.     

L’anno scorso, alla vigilia di un’altra semifinale di Champions contro il Real, The Athletic ha pubblicato un lungo articolo in cui ha raccontato come persino «l’architetto del Tiqui-Taca ha dovuto abbracciare la fisicità», derogando da quelli che apparivano come i monoliti inscalfibili di un movimento che si era già scontrato da tempo con gli aspetti deteriori del suo eccessivo integralismo, fino ad arrivare al cortocircuito definitivo tra il mezzo (il possesso palla) e il fine da raggiungere (il vantaggio generato dall’applicazione sistematica del juego de posición) il giorno in cui la Spagna venne eliminata dalla Russia agli ottavi di finale del Mondiale 2018: «Abbiamo imparato dai nostri errori del passato. Prima pensavamo che per vincere le partite fosse necessario avere il controllo e dominare per tutti i 90 minuti, chiudendo gli avversari nell’ultimo terzo di campo. Ma quando giochi contro avversari come Bayern Monaco, Psg, Real Madrid, Barcellona, Liverpool bisogna accettare il fatto di dover difendere più di quanto avevi immaginato di dover fare e di essere più consistente in fase di non possesso per concedere il meno possibile», disse Bernardo Silva. Nel giro di tre settimane il City avrebbe demolito il Real e avrebbe finalmente vinto quella Champions League che Guardiola inseguiva dal 2011, dimostrando che la strada intrapresa era quella giusta, che un altro calcio era possibile – per lui, ma non solo – e che c’era vita oltre quel Tiqui-Taca che aveva padroneggiato e manipolato al punto da farne un’estensione (prima positiva, poi negativa) del suo stesso essere, il bias cognitivo da superare per poter progredire come uomo e come allenatore.

In effetti per quanto la visione nichilista di un Guardiola che ha ucciso il Tiqui-Taca risulti affascinante dal punto di vista narrativo, per via del ribaltamento delle prospettive e delle percezioni, è molto più corretto pensare, parlare, scrivere di un Guardiola che è riuscito ad andare oltre il Tiqui-Taca. Quasi in ossequio a quell’ideale darwiniano per cui nemmeno un predatore alfa in cima alla catena alimentare può permettersi di non adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente che lo circonda. E quindi il Tiqui-Taca non è davvero morto, né è stato davvero ucciso, ma ha semplicemente – per quanto possa essere semplice un cambiamento che ha richiesto quasi un decennio di sperimentazioni, tentativi, fallimenti – lasciato il posto a qualcosa di diverso, a una versione di sé animata da una perenne tensione verticale. 

Una versione che è stata abbracciata da molti tra quelli che, anche da giocatori, si erano abbeverati alla fonte originaria, come il codice sorgente cui Neo deve tornare per poter porre fine alla guerra contro le macchine e resettare Matrix. Se Xavi ha pagato l’incertezza su ciò che avrebbe dovuto essere il suo Barcellona dopo un’ottima prima stagione, Mikel Arteta – che di Guardiola è stato collaboratore (fino al 2019) e allievo – ha fatto del suo Arsenal una squadra che è diventata molto più efficace e concreto nel momento in cui ha accorciato i tempi tra la prima costruzione e la rifinitura, brevettando un sistema in cui Declan Rice è la fionda che aziona Saka, Havertz e Martinelli, calciatori velocissimi chiamati ad attaccare senza palla le tre corsie alle spalle del centrocampo avversario. Ed è così, dopo anni di sperimentazioni, che i Gunners sono diventati una squadra di nuovo credibile ad alti livelli. Al punto che, proprio tra qualche ora, Arteta e i suoi ragazzi andranno a giocarsi una partita che vale il titolo in casa del Manchester City di Pep. Forse lo faranno da sfavoriti, visto che affronteranno degli avversari che hanno maggiore esperienza, che hanno vinto tutto. Ma intanto l’Arsenal è primo in classifica con un punto di vantaggio. 

Altro che Tiqui-Taca

Xabi Alonso a Leverkusen è riuscito addirittura a creare una commistione con i principi del calcio di Klopp, soprattutto per quello che riguarda la riaggressione immediata nella metà campo avversaria dopo la perdita del pallone e la ricerca della verticalità sfruttando le catene laterali e i tagli dei due esterni offensivi; Luis Enrique sta cercando di normalizzare il Psg attraverso un 4-3-3 in cui la ricerca costante del terzo uomo e la formazione dei famigerati triangoli in fase di possesso sono diventati gli strumenti per risalire velocemente il campo e sfruttare le doti in campo aperto di Mbappé, Barcola, Dembele e Kolo Muani.

Oltre a Xavi, chi sembra rimasto prigioniero del limbo di astrazione e indeterminatezza in cui la necessità di superare il Tiqui-Taca nella sua versione dura e pura ha partorito un ibrido senza capo né coda, è Maurizio Sarri. Cioè l’allenatore che un giorno disse «mi piacerebbe undici facce di cazzo che palleggiano in faccia al Manchester City». Nei suoi due anni e mezzo alla Lazio, la ricerca di un compromesso con l’anima verticale e reattiva di una squadra costruita per esaltare le caratteristiche di Ciro Immobile ha finito con lo snaturare la sua stessa idea di calcio, tutto ciò che lo aveva portato a sedersi alla stessa tavola di tecnici più titolati con cui, però, condivideva visioni, concetti, proposte, valori tecnici ed estetici. Oggi quei valori, quelle proposte e quei concetti sono cambiati, o almeno non sono più così rilevanti, esattamente come il Tiqui-Taca. Che non è morto, non è stato ucciso da qualcuno e probabilmente non è nemmeno «la merda» che Guardiola raccontava dieci anni fa; è soltanto stato superato da sistemi più adatti ai nostri tempi. Sistemi che proprio Pep e i suoi discepoli hanno contribuito a plasmare.