Tutti i motivi per cui la Juventus dovrebbe sbrigarsi a dare il numero 10 a Kenan Yildiz

Il giovane attaccante turco ha quello che serve per indossare una maglia così pesante, così prestigiosa.

Paul Pogba sorride compiaciuto. È l’11 luglio 2022 e la maglia, la sua maglia, la maglia numero 10 della Juventus, è ancora lì dove l’aveva lasciata. Negli ultimi cinque anni il peso di oneri e onori legati a quel numero era stato tutto sulle spalle del suo amico Paulo Dybala, che si era trasformato in uno dei giocatori più divisivi della storia bianconera nel momento stesso in cui aveva deciso di raccogliere l’eredità di Michel Platini e Roberto Baggio, di Alessandro Del Piero e Carlos Tévez. Ma Pogba non è Dybala: Pogba è Pogba, Pogba sente che andrà bene, che andrà com’era andata l’ultima volta che quel numero era sulle sue spalle, perché «mi sento troppo bene». Mentre lo dice, le sue mani scivolano lungo la maglia affinché aderisca al corpo nel modo migliore possibile, quasi come se volesse recuperare il contatto fisico con qualcosa che gli era mancata moltissimo, e il suo volto si illumina di quell’entusiasmo genuino che sembrava aver smarrito nelle paludi tecniche ed emotive della sua seconda esperienza a Manchester. Non gli si può non credere. E quindi sì, «andrà bene», perché la Juventus ha di nuovo un numero 10.

Flash forward fino ai giorni nostri. I giorni in cui Paul Pogba non esiste calcisticamente più, se non come simulacro di una grandezza che non ha saputo resistere allo scorrere del tempo, ai problemi fisici, a quelli fuori dal campo. Dodici presenze, 161 minuti complessivi, un assist, nessun gol, appena qualche sprazzo del freak che aveva bullizzato la Serie A all’inizio degli anni Dieci: queste le statistiche in cui racchiudere un rimpianto che è pari solo a quelle che sono state le manifestazioni del suo talento. Il 16 luglio 2024 la Juventus presenta il suo nuovo home kit ispirato alla luna con un video di 30 secondi che sembra uscito direttamente da Moonfall di Roland Emmerich, in cui un astronauta solitario in esplorazione prende contatto – è proprio il caso di dirlo – per la prima volta con la maglia della stagione 2024/25. E siccome quell’astronauta è Kenan Yildiz la caccia all’easter egg che lo “ufficializzasse” come il nuovo 10 è stata una conseguenza quasi naturale.

C’entra, ovviamente, l’attesa che circonda un ragazzo di 19 anni che considera normali cose straordinarie come il gol all’esordio da titolare in Serie A contro il Frosinone o la rete in casa della Germania alla seconda presenza in Nazionale maggiore. Così come c’entra il bisogno di un’intera tifoseria di qualcuno di cui appropriarsi, qualcuno su cui proiettare sogni, speranze, attese e desideri, qualcuno che li faccia innamorare di nuovo – del calcio e della Juve – e che riesca a generare quella connessione emotiva che non è mai appartenuta, ad esempio, a Dusan Vlahovic e Federico Chiesa. Ma c’entra, soprattutto, l’idea stessa che abbiamo del numero 10 della Juventus, cioè del giocatore più rappresentativo di una squadra che ha edificato la propria leggenda su alcuni tra i più grandi 10 della storia del calcio senza che nessuno di questi potesse mai considerarsi al di sopra della Juve stessa.

Diversamente da quanto è accaduto, e accade ancora, a Napoli con Diego Armando Maradona e a Roma con Francesco Totti, quando parliamo della Juventus la mistica del numero 10 si traduce nella convinzione che «quella maglia deve essere indossata e non ritirata perché è bello che tutti i bambini possano sognare di giocare con una maglia che, in 113 anni di storia, è stata vestita da grandissimi campioni». Queste parole le disse Alessandro Del Piero, che quella maglia se la prese da Roberto Baggio quando aveva poco più di vent’anni, pochi giorni dopo essersela tolta per l’ultima volta; lo pensa, con ogni probabilità, anche Yildiz, che dopo aver segnato al Bologna all’ultima giornata disse che «indossare la maglia numero 10 è un mio sogno ma non è ancora giunto il momento» e che invece, ora che sta per cominciare la stagione più importante della sua giovane carriera, vede la numero 10 lì in bella mostra, il bonus intangibile sul prossimo rinnovo di contratto fino al 2029 che assomiglia a un potenziale impegno per la vita. Al punto che non ci si chiede più se Yildiz possa essere un 10 – perché lo è già, de facto – ma se sia in grado di essere quel tipo di 10 che la storia della Juventus impone: «Da tempo lui e Del Piero si tengono in contatto», raccontò qualche tempo fa a Tuttosport l’agente del giocatore, Hector Peris Ros. «E si sono sentiti anche dopo il gol di Frosinone. Kenan conosce il valore di Del Piero alla Juventus e ha ascoltato i suoi consigli, perché immagina e sogna un cammino così. Si prepara da quando è piccolo per diventare un top»

Con il primo Del Piero, Yildiz condivide la precocità di manifestazione di un talento sovradimensionato rispetto ai calciatori della sua età, la leggerezza di piede e di pensiero, la sfrontatezza di certe giocate controintuitive, il coraggio di osare sotto pressione, la ricerca continua della sfida con sé stesso e con gli avversari. Si tratta di un ponte tra passato presente e futuro che unisce almeno due generazioni di calciatori e di tifosi attraverso una strategia di marketing ed engagement costruita su una narrazione – quella dell’erede – di facile impatto e che ha un senso pure dal punto di vista delle logiche aziendali: dare la maglia numero 10 a Yildiz significherebbe fare di lui il simbolo della rivoluzione culturale avviata da Thiago Motta oltre che di una delle poche cose che ha funzionato nella Juventus degli ultimi cinque anni, vale a dire quello scouting e quella squadra Next Gen che stanno pagando i dividendi sperati nonostante una politica di player development che non è sempre andata di pari passo con gli investimenti effettuati nel settore giovanile. Ma c’è anche su una fortissima componente nostalgica legata a una visione ancestrale del numero 10, una visione che è comune a tutte le latitudini: quella del fantasista libero da vincoli, ruoli, posizioni e compiti tattici. Una visione superata dal mondo e dal tempo, ma che è stata in grado di sopravvivere persino nell’epoca dei giocatori bionici creati in laboratorio, in cui la fisicità esasperata ha progressivamente ridotto lo spazio riservato ai creativi puri, quelli che secondo Jorge Valdano (parlando di Juan Román Riquelme) riempiono «gli occhi di paesaggi meravigliosi» mentre vanno da un punto all’altro del campo.

Quando si parla di Yildiz i paesaggi che riempiono gli occhi – e le partite – per lo spazio di un momento sono un gol in Coppa Italia passando attraverso gli avversari con la levità del vento che non può essere fermato, un tiro al volo in controtempo quando la razionale prudenza avrebbe suggerito di provare a stoppare un pallone che arrivava lungo e lento da centrocampo, una ruleta per rimettersi in asse dopo aver controllato un passaggio troppo forte, un tocco interno-esterno per spezzare il raddoppio e uscire da un situazione in cui la maggior parte dei giocatori sceglie di appoggiarsi al compagno più vicino per rientrare in una logica di gioco che vale per tutti e che azzeri il rischio e la possibilità di errore. Qualcosa il cui carattere effimero, etereo, sfuggente, si è manifestato con un’evidenza ancor più brutale in una stagione in cui, durante le partite della Juventus, c’è stato davvero poco per cui emozionarsi e riempirsi gli occhi.

Anche dentro la Juventus sono perfettamente consapevoli delle qualità di Yildiz

Ecco, se proprio bisogna trovare un motivo per cui sarebbe bello e sarebbe giusto che Kenan Yildiz diventasse il prossimo 10 della Juventus è proprio per questo suo riuscire a emozionare, nonostante tutto, proprio come accadeva una volta. Per il suo essere un 10 di ieri nel calcio di oggi, per come riesce a incarnare la nobiltà richiesta a chi di mestiere fa il fantasista, coniugando tradizione e innovazione, dominio degli spazi e voltaggio del gesto tecnico. C’è tanto dei 10 degli anni Ottanta e Novanta nel bisogno quasi fisico che Yildiz ha di avere sempre il pallone tra i piedi, di stabilire un contatto continuo e costante con quell’oggetto rotolante come se volesse farne un’estensione diretta del suo corpo, e di farlo in quella zona compresa tra il cerchio di centrocampo e il limite dell’area di rigore dove è lui a decidere se accelerare o rallentare il ritmo della partita; ma c’è anche tantissimo delle moderne mezzali di possesso alla Bernardo Silva o alla Kevin De Bruyne, per esempio nel modo in cui si sposta continuamente da destra a sinistra per poi decidere se giocarsi l’uno contro uno oppure tagliare verso l’interno con furiose accelerazioni palla al piede cercando lo scambio corto, il laser pass che taglia fuori l’intera linea difensiva, lo spazio per la conclusione dal limite dell’area.

Quello di Yildiz non è un gioco ma un atto di forza costruito sugli appoggi e sui cambi di direzione, la celebrazione di una superiorità tecnica e fisica che si traduce in un ricerca quasi scientifica degli spazi più angusti in cui andare ad infilarsi per attirare il raddoppio e generare superiorità numerica e posizionale anche in quelle zone di campo dove normalmente si tende ad agire in maniera conservativa. Perché è questo che fa un numero 10, crea lo spazio dove gli altri si limitano a cercarlo; e Kenan Yildiz in quello spazio che è tutto suo si diverte come un matto, come quando era ancora uno dei tanti bambini che sognano di indossare una maglia con quel numero che adesso aspetta solo di posarsi sulle sue spalle.